THE TIME MACHINE – Liverpool-Arsneal: La leggenda di “Anfield ’89”

0
511

Il campionato 1988-89 fu indissolubilmente segnato dal colore rosso, quello dell’Arsenal, del Liverpool e del Nottingham Forest che monopolizzarono le prime posizioni della classifica, cui solo il gialloverde del sorprendente Norwich City riuscì a porre un breve contrasto nella prima parte della stagione. D’altro canto, se parliamo di anni ottanta, l’intero calcio inglese ed europeo vide il dominio dei Reds, che per quasi due lustri fecero incetta di trofei a ogni latitudine. Tuttavia, all’alba del 1989 il mondo si stava velocemente apprestando a cambiare, un mutamento che coinvolse a suo modo anche il calcio. Se in campo continentale lo scettro era ormai passato saldamente nelle mani del Milan, in patria i campioni uscenti ritrovarono uno storico rivale nei redivivi Gunners; una squadra non in declino ma tuttavia da troppo tempo lontana dai vertici, che per risalire al suo ultimo alloro nazionale doveva volgere indietro lo sguardo addirittura alla stagione 1970-71. Quel torneo visse su di un rosso dualismo che, se il passato non ci avesse messo lo zampino, avrebbe potuto condividere perfino la stessa casacca. Gli Scousers, esclusa l’effimera genesi in biancoblù, fin dal termine dell’Ottocento sfoggiano infatti, ininterrottamente, una maglietta rossa – che nel 1964, per decisione del coach Bill Shankly, venne inserita in un completo monocromatico a discapito dei vecchi pantaloncini bianchi. Anche i londinesi vestirono per lungo tempo una casacca a tinta unita dello stesso colore, da principio d’una totalità simile al ribes, che i soci fondatori dell’allora Dial Square ricevettero in dote dai loro ex compagni del Forest. Curiosamente, nel 1906, proprio questa maglia venne ammirata a Londra dal presidente dello Sparta Praga il quale, rimastone rapito a tal punto, decise di affibbiarla alla sua compagine, che da allora porta in campo il colore che segnò le origini dei cannonieri. L’Arsenal di rosso ammantato sopravvisse fino al 1933 quando Herbert Chapman, il tecnico fautore di quel “Sistema” che rivoluzionò il calcio del tempo, decise di rendere più identitarie le divise dei suoi giocatori tingendo di bianco le due maniche. Da allora, a tale e iconico schema cromatico, i Gunners derogarono solo in due occasioni: nel biennio 1965/67, quando alla scomparsa del bianco seguì a furor di popolo una veloce retromarcia, e nella stagione 2005-06, per l’addio a Highbury, rispolverando nell’occasione lo storico ribes degli albori. Sul campo giocato, dopo una partenza in sordina, l’Arsenal seppe presto portarsi nella scia del Norwich City, superando i Canaries nell’ultimo giorno del 1988 e chiudendo in testa il girone d’andata. Visto il vantaggio accumulato dai biancorossi col nuovo anno, il resto della stagione sembrò vivere unicamente sull’attesa del trionfo, ma proprio qui accadde il primo colpo di scena del campionato. Un Liverpool fin lì in profonda crisi, che era arrivato a cedere perfino 15 punti dalla vetta, con una impronosticabile rimonta riuscì in poco più di un mese a tornare in corsa per il titolo e, complice in dirittura d’arrivo un deciso rallentamento della capolista – come si dice “braccino corto” in inglese? –, a una giornata dal termine piazzò quel sorpasso che pareva ormai decisivo per le sorti del torneo. Liverpool 76, Arsenal 73. Rimanevano ancora novanta giri di lancetta da giocare; rimaneva, soprattutto, da vivere quella sfida attesa un anno intero e che, per una beffardo quanto drammatico scherzo del destino, la sorte aveva voluto epilogo di una stagione vissuta costantemente sul filo del rasoio. Gli uomini di George Graham potevano ancora sperare di conquistare quel successo che sfuggiva ormai da diciotto anni… ma erano forse gli unici, assieme a qualche incrollabile tifoso, rimasti a crederci: i Gunners erano, su piano fisico e mentale, in caduta libera, a dispetto dei Reds ormai lanciati e pronti a festeggiare davanti al loro pubblico l’ennesimo titolo di un decennio d’oro. L’undici di Kenny Dalglish poteva perfino permettersi di soccombere di misura, poiché solo una vittoria con due gol di scarto avrebbe permesso agli ospiti, grazie alle maggiori reti segnate, di diventare campioni; un ragionamento, questo, che alla vigilia sfiorava l’eresia

I Gunners in gialloblù nel match con il Liverpool, 1977-78

…erano tre anni che una squadra non batteva a domicilio il Liverpool con più di due reti, e la cosa ai londinesi non riusciva da oltre quindici. Tutto sembrava remare contro i cannonieri, tanto che la stampa non ebbe problemi a titolare compatta, la mattina del match: «You Haven’t Got A Prayer, Arsenal!» Quando, alle 20:05 di quel 26 maggio 1989, Ronnie Whelan e Tony Adams guidano in campo le loro formazioni, Anfield sembra presagire le porte dell’Inferno per i Gunners, accerchiati da quarantamila urla scatenate e da una Kop che già inneggia al trionfo.

Norwich City , outsider della First Division 1988-89

Lontani, i tifosi londinesi sono quasi tutti nei dintorni di Highbury, come a stringersi in un ideale abbraccio collettivo; c’è chi è casa o nei pub, da solo o con gli amici ma rigorosamente davanti alla TV, e chi è nelle strade, rimasto bloccato nel traffico, con un orecchio alla radiolina e l’altro pure. Prima del fischio d’inizio, un vincente c’è già… adidas, che veste entrambe le formazioni! Orgoglio british, invece, per l’arbitro chiamato a dirigere questo appuntamento con la storia, lo scozzese David Hutchinson, vestito da Umbro in una semplice uniforme nera esaltata da un candido colletto bianco. Il Liverpool si presenta all’occasione – d’altronde, è dal 1952 che il campionato non viene assegnato in uno scontro diretto all’ultimo turno – nella sua abituale tenuta di casa, una divisa rossa con girocollo e altri dettagli lindi, e le stripes che corrono su spalle e gambe. Di contro, l’Arsenal affronta la sfida più importante del suo recente passato affidandosi alla seconda uniforme: le maniche e le spalle, colorate d’un intenso blu navy, cingono il petto giallo della maglia, dove al centro spiccano quelle lettere JVC che hanno cresciuto un’intera generazione di tifosi. Pantaloncini blu e calzettoni gialli completano un abbinamento nato del 1969, presto divenuto uno dei più iconici per le trasferte dei Gunners. Questo affonda le sue radici nella maglietta gialla che timbrò la vittoriosa FA Cup del 1950, dove i londinesi superarono proprio i Reds; due decenni dopo, fu ancora il gialloblù che permise all’Arsenal di riavere la meglio sugli Scousers nell’edizione del 1971, così come nel ’79 toccò al Manchester United soccombere davanti a tali colori. Corsi e ricorsi storici, gli unici cui i cannonieri potevano strenuamente aggrapparsi. Alle braccia dei giocatori, nero per il Liverpool e bianco per l’Arsenal, fanno capolino delle tristi fasce a lutto. I Reds cercano infatti il double dopo la recente vittoria in Coppa di Lega, ma non possono dimenticare come quel trofeo sia macchiato dalla strage avvenuta nella semifinale del 15 aprile, quando gli spalti dell’Hillsborough Stadium di Sheffield si trasformarono in un campo di battaglia. Non è un mistero che Rush e compagni vogliano dedicare il titolo a quei 96 tifosi che non ci sono più, periti sotti i colpi della follia nella più grande tragedia dello sport inglese; in questo senso, è forse l’intera nazione a sospingere i padroni di casa verso la vittoria, come una sorta di “risarcimento” postumo… coi Gunners, loro malgrado, incolpevole ostacolo. Come una perfetta sceneggiatura a orologeria, il primo tempo della sfida scorre via quasi senza accorgersene, lasciando agli ultimi, incandescenti, tre quarti d’ora il compito di sbrogliare un intero campionato. È al 52′ che i colori gialloblù cominciano a farsi spazio nel mito, quando Alan Smith azzecca il colpo di testa del vantaggio londinese. La muraglia rossa di Anfield sta iniziando a sgretolarsi, tanto che le proteste degli Scousers (più veementi del solito per un gol che, in qualsiasi altro giorno dell’anno, sarebbe apparso di una regolarità lampante) sono in realtà dettate da un unico comun denominatore: la paura, che di colpo inizia a impregnare fatalmente le loro madide casacche. Tuttavia ciò ancora non basta, c’è bisogno di un ultimo sforzo per realizzare il sogno dell’Arsenal… vanificato, col passare del tempo, da un Liverpool adesso quasi catenacciaro, disposto a tutto pur di far scorrere le lancette, e che in cuor suo aspetta solo il fischio finale. Quando l’orologio segna lo scoccare del 90′, i tifosi delle opposte fazioni tremano e sperano assieme, mentre l’arbitro ordina un extratime di due minuti. L’ultimo assalto gialloblù parte dai piedi dell’estremo difensore londinese Lukic, che consegna a Dixon una disperata palla da scagliare il più avanti possibile; a riceverla in mezzo al campo c’è Smith che, insolitamente dimenticato dagli avversari, in meno di un frangente getta la sfera verso l’area di rigore dei padroni di casa… dove si sta involando Michael Thomas, colui che diverrà per sempre “The History Man”. Il numero 4 non ha uno stop felice, ma un rimpallo fortunoso lo smarca e lo proietta da solo davanti a Grobbelaar. Mancano appena 25 secondi alla fine della partita, del torneo, dei sogni e delle speranze di ventidue giocatori: il centrocampista opta per la precisione a discapito della potenza, con un esterno destro che toglie il fiato a un’intera nazione…

…un tiro sospinto col pensiero da tutta Highbury, sicuramente anche dagli Evertonians. Un tiro che al 91′ gela Anfield e fa impazzire mezza Londra, insaccandosi lentamente in fondo alla rete. Quel che segue, di fatto, poco conta. Thomas (che, ironia della sorte, nel decennio seguente diverrà una “bandiera” proprio del Liverpool) si getta a terra dimenandosi come colpito da un fulmine, tanto può la tensione di un momento che è già storia. Con la forza della disperazione, i Reds tentano di ribaltare in pochi secondi un intero campionato, ma l’espressione che si materializza sul volto di Dalglish, impotente spettatore a bordo campo, sancisce di fatto l’avvenuto passaggio di consegne. Al triplice fischio di Hutchinson viene riservato l’onore di chiudere una stagione al cardiopalma, tanto sfibrante quanto bella, tanto infame quanto giusta.

Bardati di gialloblù, i cannonieri sollevano sul prato di Anfield uno dei trofei più importanti della loro storia; se non sul piano sportivo, sicuramente su quello emozionale. Un frangente, questo, che — pochi lo immaginano, quella sera — sarà destinato a cambiare per sempre lo stesso calcio inglese. In un paese che ha appena grondato il fresco sangue di Hillsborough — e che ancora fa i conti coi fatti di Valley Parade e con la vergogna dell’Heysel, le tragedie che segnarono quel terribile 1985 —, l’ultima cosa che ci si aspetta di vedere sono gli hooligan del Liverpool che, dopo essersi visti sfuggire un sogno a pochi secondi dalla fine, non trasformano la sconfitta in follia, in violenza, in insensatezza: rimangono al loro posto sugli spalti dello stadio, tutti, per intonare uno dei più struggenti You’ll Never Walk Alone che il tifo dei Reds ricordi. Questa notte diventa quella in cui il football d’oltre Manica chiude i conti col passato, rinascendo come un’araba fenice dal suo decennio più nero. Queste due maglie non sono più solo il simbolo di un’avvincente lotta sportiva, ma diventano qualcosa di più: il baluardo di una nuova epoca, attraverso cui mostrare al mondo intero che un altro calcio, adesso, è davvero possibile.

Stefano Puricelli